mercoledì 13 giugno 2012

Dancing in the dark triestina


Bruce è puntuale mica è come Vasco Rossi, Baglioni, Ligabue o Venditti che danno appuntamento alle 21 e poi, prima delle 22,30 non iniziano a suonare complice il "rispetto" per i poco rispettosi spettatori ritardatari i quali, maleducatamente, prima delle 21,30 non si muovono dalle loro case.
E alle 21,10, infatti, l'attesa viene premiata tra boccali di birra trangugiata dal popolo springsteeniano cordialmente senza rutti e senza baresismi acuti in stile tutt'altro che curvaiolo calcistico, e qualche provvidenziale panino al sandaniele locale: un fiato ansimante, un'attesa serena e composta han lasciato il posto ad un boato percuotendo il Rocco - anzi il Rock'o - all'entrata del Boss coi 30 mila presenti intenti a smanettar Iphone che hanno lasciato il posto, ormai, agli struggenti accendini di una volta. I display colorati di celeste monitor erano talmente tanti che han formato un tappeto zeppo di quadrettini monocolore.

E pensare che lì, attiguo, in piena Valmaura, si innalza il vecchio Grezar, ora dannatamente moderno (forse troppo), teatro di tante battaglie e palcoscenico iniziale di Nereo Rocco cui Trieste ha dedicato una mostra antologica al ristrutturato "Magazzino 26", che fa il verso alla celebre canzone di Stefano Rosso "Letto 26", del Porto Antico (e che consiglio, a quanti transitassero da quelle parti, di andare a vedere), e di mille altri personaggi di un calcio ormai sbiadito: insomma, un po' come a Bari o, se preferite, al Bari calcio che, come noto, fanno a botte - tanto ci tengono al passato biancorosso - per organizzare una mostra perpetua, tipo museo, sulla storia del Bari o su un personaggio defunto locale legato ai destini del galletto. Chi tutto e chi niente, insomma. Inevitabile, poi, guardando l'infinito dello stadio, tornare indietro con la mente nella mia imperitura curva della memoria biancorossa e pensare a Spinesi e Tardelli allorquando espugnarono questo stadio appena costruito.

Ma non c'è tempo né spazio per pensare al Bari, stavolta, se non al fatto - giusto per non perdere le sane abitudini - che il  Boss possa diventare il neo attaccante della squadra di Torrente. E dopo l'ennesimo gabbiano triestino svolazzante che ha tagliato il Rocco come un assist di Pirlo, in questo festival senza confini, in questo rock senza frontiere, ecco Bruce salutare il pubblico sia in italiano che in sloveno perché da queste parti, come in alto Adige e come in tutte le zone analoghe, è d'obbligo il bilinguismo, un pubblico cosmopolita che ha calamitato fans stranieri da ogni latitudine. Del resto è normale per Trieste, porto dell'Impero, polo culturale per eccellenza senza, tuttavia, mai pensare di concorrere a capitale della cultura europea a differenza di altre città d'Italia che, sfacciatamente e presuntuosamente, si candidano senza dignità pur non avendo nulla a che fare con "culdura", centro di gravità permanente europeo, forse più di Bari tradizionale snodo d'oriente tendenzialmente in declino in quanto prigioniera del suo commercio, diventare una Piazza Unità di popolazioni mondiali, balcaniche, asburgiche ed italiane, in una convivenza pacifica e cordiale, senza dimenticare dei fans proveniente dall'Australia, dal Brasile, dall'Islanda, dall'area balcanica, da Singapore e... appunto da Bari: ieri a Ronchi dei Legionari, al gate n. 7 dove il provvidenziale volo Trieste Bari (e ritorno) appena istituito stava per decollare, tra i 200 passeggeri ho contato almeno 60 fans nicolaiani a stelle e strisce.

Si parte già con le stoviglie color nostalgia di Badlands e di No surrender, giusto per riscaldare i cuori malinconici affranti come il mio per un antipasto di quello che sarebbe stato di lì alla fine, anche per esorcizzare il temporale che i vari colonnelli bernacca locali avevano previsto, fortunatamente appena sfiorati e dirottati sul Carso che han lasciato il posto ad un cielo straordinario, color cobalto, a fare da contraltare alle vette delle Alpi Giulie in lontananza e quelle dei colli del Carso visibili, però, tra le intercapedini della ferraglia rossa del Rocco, sulla destra, in quanti tanto più vicini quanto più bassi.

Da quelle parti devono essere molto fortunati. Già perché, sentendo un po' qua e la la gens triestina, parrebbe che quello sia stato il più grande evento (uno dei tanti, a prescindere dal genere) mai visto, ascoltato e vissuto nell'ex porto dell'Impero. E se il tour, dopo quello di Milano e di Firenze diventati  tradizionali, ha toccato Trieste è soprattutto per merito del sindaco Roberto Cosolini, fan del Boss, che ha seguito dal vivo qua e la per il mondo 45 suoi concerti a cominciare dal primo a Milano dell'85 fino a quello dell'altro giorno, prima di Trieste, sempre a San Siro.
Il sindaco triestino che di politica seria se ne intende e conosce il metodo per reclutare elettori senza scendere a patti con gli imprenditori, in campagna elettorale aveva promesso di portare a Trieste Springsteen dirottando 30 mila persone allo stadio: altro che Emiliano il quale, invece, per essere riconfermato, aveva promesso 30 mila posti di lavoro. Trentamila persone a confronto, insomma. Sicuramente verrà riconfermato al secondo turno, senza ricorrere ad accordi con palazzinari, né alle inevitabili ed innocue ceste di pesce che, tra l'altro, qui dove spira la bora o il "borin", non è un mantra come da noi. Basta promettere Springsteen in fondo per apportare ricchezza in una città. Posso concorrere anch'io, dunque, a sindaco di Bari: verrei eletto al primo turno senza tante storie, con un plebiscito. E le parole le mantengo.

Se penso che, mediamente, quei 30 mila spettatori avranno sborsato circa 150 euro a testa tra pernottamento, cibo, fumo, souvenir, bar, osmize varie e quant'altro (biglietto concerto e viaggio esclusi), capisco perché certe città sono molto più ricche di Bari pur essendo simili. Qui di eventi del genere manco a parlarne: solo Pat Metheny per la 79esima volta, solito Jazz snob luglino per spettatori tutt'altro che intenditori che riempiono i fossati dei castelli o le banchine dei lungomari solo per darsi un contegno di intenditori del settore quando invece non capiscono una mazza e vanno lì solo per far gruppo, magari per dare uno schiaffo alla virtualità cogliendo l'occasione per conoscersi dopo le tante frasi, le più copia ed incolla, scrittesi su facebook tra perfetti sconosciuti, e qualche cantautore qua e la da 1000 spettatori. 

L'ultima volta in cui Bari fu invasa da 50 mila stranieri accadde nel '90 quando grazie ad Antonio Matarrese, intenditore e buongustaio di ricci come pochi, ma anche autorevole personaggio calcistico mondiale (meno politico, invece, in quanto ho preso più voti io che lui, in proporzione, alle ultime comunali), la finale di Coppa dei Campioni tra Stella Rossa ed Olimpique Marsiglia, decisero di giocarla nell'astronave del San Nicola apportando nelle casse baresi soldi freschissimi. Ma ormai non si può fare affidamento più nemmeno su Matarrese. A Trieste, invece, non c'è Matarrese: lì si espone direttamente il sindaco.

Tornando al Rock'o, una passerella, un palco "normale", senza isterismi dove musica, rock e sudore l'hanno fatta da padroni insieme ai soliti schermi giganti giusto per accorciare le distanze, una passerella percorsa in lungo ed in largo giusto per ricordare che lui, infondo, è "burn to run", mica per altro. Una corsa, di tanto in tanto, a reclutar fanciulle infatuate di tutta la E Street Band ma anche un ragazzino tenero e dolce nato e cresciuto, verosimilmente, sotto l'egida genitoriale springsteeniana, che ha deliziato lo stadio con Waitin' on sunny day cantata con la sua voce bianca quasi da Antoniano. Beati loro: confesso che, quanto meno, avrei voluto essere lì vicino, non dico sul palco.

Molte canzoni che si son sposate benissimo con la storia recente, da quella americana a quella italiana, canzoni dedicate alle persone sfortunate, a quelle che hanno perso il lavoro, a quelle che si son viste sbriciolare la casa dal recente sisma in Emilia, viste, musicate e cantate, come sempre, con una prospettiva pasoliniana versione americana, con un occhio al popolo degli ultimi. 
La sua voce roca inconfondibile ancora ruggente come il primo concerto di San Siro dell'85, non  ha tradito l'emozione anche quando ha deciso di percorrere la curva della memoria storica. Mi domando davvero come faccia, a 65 anni suonati, a mostrarsi così giovane. Va bene lo spirito, ma il fisico... Men sana in corpore sano, insomma.

E dopo aver presentato il suo ultimo lavoro "Wrecking ball" ed essersi arruffianato, come da copione, la città con il solito elogio a Trieste descritto, opportunamente per terra, in italiano manco fosse Umberto Saba con una delle sue celebri elegie alabardate o Italo Svevo o Joyce, l'atmosfera si è riscaldata ulteriormente coi pezzi storici verso i quali rimanere impassibili seduti sul seggiolino sarebbe stato davvero impossibile soprattutto per uno come me che non ha mai ballato in vita sua se non, appunto, nei concerti del Boss (oddio, ballato è una parola grossa: diciamo che mi son mosso). 
Da Born to run, a Jonnhy 99, da Thunder Road a Bobby Jane, passando per Born in the USA, Dancing in the dark, Hungry heart, e finendo a mille altre mentre ha cercava persino il contatto fisico col pubblico del prato spingendosi ben oltre la prima fila lì davanti. 

E' un sublimar della E Street Band con Little Stevans a suonar la carica insieme al nipote di Clarence Clemons - niente male - a cui Bruce gli ha voluto tributare un omaggio con tanto di foto, Danny Federici, Max Weinberg sempre più assomigliante a Sthephen King, versione batterista , Roy Bittan e la fotocopia di Patty Scialfa, almeno da lontano, Soozie Tyrell.
E' finito il concerto. Quell'atmosfera struggente che mi ha portato indietro con la memoria, ha lasciato il posto all'attualità. Il volo Ryanair è lì che mi aspetta per vedere i monti e la costa croata da lassù fino a rivedere la costa barese. Tornado veneziano permettendo.
Ciao mitico Boss. Alla prossima.

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